Street Art,
rivalutazione urbana
di alcuni luoghi cittadini.

Generalmente non si chiede alla gente cosa pensa del colore. Ma se ponessimo a qualcuno un domanda così fluttuante, dopo un poco d’esitazione troverebbe le parole per elogiare il colore nelle forme in cui esso si manifesta: dai fiori, alle stoffe, alle vernici delle macchine o delle case. È probabile che il colore porti a pensare all’arte, a un quadro, magari uno di quei pezzi enormi di Matisse nella fase terminale della sua carriera, in cui si esprime quasi soltanto con colori puri e forme semplici. Ancor più forte è espresso il colore dall’arte dei graffiti.

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Al Nuovo Cinema Aquila di Roma, l’ultimo film di Stefano Odoardi

Generalmente non si chiede alla gente cosa pensa del colore. Ma se ponessimo a qualcuno un domanda così fluttuante, dopo un poco d’esitazione troverebbe le parole per elogiare il colore nelle forme in cui esso si manifesta: dai fiori, alle stoffe, alle vernici delle macchine o delle case.
Certo è che si fa una scelta estetica quando si propende per un colore, tale scelta è senz’altro un momento piacevole.
È probabile che il colore porti a pensare all’arte, a un quadro, magari uno di quei pezzi enormi di Matisse nella fase terminale della sua carriera, in cui si esprime quasi soltanto con colori puri e forme semplici.
Ancor più forte è espresso il colore dall’arte dei graffiti. Essi si compongono con la sovrapposizione di vernice spray, generalmente i writers colpiscono d’impeto un muro e hanno in mano semplicemente una Belton o una Krylon, storiche bombolette dell’underground newyorkese, qualcuno una Montana o una Clash. Gli spry dei graffitisti: l’unico strumento che utilizzano per esprimersi.

Sarebbe troppo pretendere che alla domanda di sopra qualcuno associ immediatamente il writing al colore, ma si può iniziare a notare come questa subcultura stia lentamente uscendo dalle gallerie metropolitane, arrivando non di rado in quelle d’arte. Forse, è proprio grazie al mercato dell’arte che ha fatto assurgere a miti alcuni artisti di strada che con stilemi particolari hanno portato nel campo artistico una nuova tendenza. Attraverso l’imposizione di un modello artistico l’arte elitaria porta le persone comuni a conoscere e a leggere in maniera inusuale e nuova un’estrinsecazione artistica, ecco qua che l’imbrattatore Banksy, il suo avversario Robbo, il nostrano Blu o il quotatissimo Mode2 si tramutano in produttori di cultura.
Il motivo per i quale è servita l’imposizione del mercato e dei galleristi a far esplodere il culto di questa arte giovane tra la gente comune, è essenzialmente uno: il writing è nato in una situazione degradante quale potevano essere le periferie di New York su finire degli anni Settanta, più precisamente nel quartiere più temuto e che al contempo conta una filmografia incredibilmente ampia: il Bronx, per tanto a questa forma del colore è viaggia insieme all’idea di illegalità.
È una forma artistica legata alla strada, a quelle bande di ragazzi che parlano in slang e sono attenti che nessun estraneo invada il loro territorio. Ecco che si sviluppa il bisogno di palesare e dare un confine alle loro zone, attraverso le firme, o meglio “tag”. Nasce così la tendenza a invadere ogni spazio libero per mezzo di scritte che nel giro di poco tempo diventano un motivo di vanto e virtuosismo grafico.

Nuova York ha dato i natali al graffitismo, e questo è un assunto condiviso, si veda il film “Style Wars”, prodotto nel 1983 con un budget di pochi dollari, in cui si traccia una storia del writing, portando alla ribalta il protagonista del docufilm, un vero writer di origine portoricana, che nel bronx ha influenzato con il suo stile un copioso gruppo di artisti, Lee Qinones. Chi oggi possiede un suo quadro è certamente un collezionista col culto dell’arte suburbana!
Dall’east coast i graffiti arrivano a Los Angeles, ma la strada così lunga che congiunge le due città ha portato una differenziazione di stile che nel giro di un lustro ha creato due scuole americane, quella old style più aggressiva e primigenia, fatta di quasi sole lettere e quella delle spiagge bianche, che ha introdotto il figurativo, più spettacolare e colorato. L’approdo nel vecchio continente è avvenuto a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta e all’accoglienza europea ha pensato la grande Berlino, forse perché i berlinesi non potevano più sostenere la vista di quel muro divisorio, per giunta tristemente grigio. Tanto è stato prodotto su entrambi i lati del muro che quando nell’89 è stato abbattuto qualcuno ha proposto di conservarne i brandelli che avevano sopra i “pezzi” più pregevoli. Londra e Parigi introdurranno tra le loro strade immediatamente dopo il graffitismo, ma la produzione di artisti di livelli elevatissimi sarà repentina. Pensiamo ad esempio al solitario Banksy che da perfetto manager di se stesso (forse adesso ne avrà ingaggiato uno) sfrutta l’incognita della sua figura per colpire l’opinione e creare un evento mediale introno ad ogni sua opera.

Roma: più di ogni altra città la scuola romana rimane fedele all’origine d’oltreoceano. Sviluppando una linea estetica più tondeggiante rispetto ai fratelloni newyorkesi e molto raramente lasciano spazio al figurativo. Come ogni tendenza culturale oggi, a trent’anni dalla diffusione del graffitismo, le caratteristiche estetiche di ogni scuola si sono aperte alla novità, ma la tendenza a creare qualcosa che contraddistingua un territorio e un gruppo specifico rimane una attitudine fondante dei giovani che si cimentano nel writing.

I puristi del codice non scritto (quello che vieta, tra le altre cose, di imbrattare i monumenti) sembrano ancora restii concedere la propria arte alle murate legali, poiché senza l’adrenalina notturna dei loro colpi di colore le loro opere perdono di spessore. Ma più forte è la tendenza all’allargamento delle prospettive artistiche volta anche a scrollare dal graffitismo l’etichetta dell’illegalità.

Città grandi e piccole dell’Europa del nord, certamente più predisposte dell’Italia nella cura dell’estetica urbana attraverso la novità ormai non hanno più sporche murate cieche da riempire. Il bel paese fatica a lasciar spazio al colore perché ancora non riesce a svecchiare l’idea del “imbrattatore” con lo spray. Forse sapere che Orgosolo, paesino sardo nel cuore della Barbagia, ormai è più conosciuto per i suoi graffito piuttosto che per il banditismo, o che già artisti come Mimmo Rotella avevano iniziato a comprendere il potenziale artistico dei messaggi colorati affissi sui muri, catalizzerebbe il processo di accettazione del writing in una fascia sociale più ampia. L’arte muraria, camminando molto all’indietro nel tempo è quella che riusciamo ancora a vedere tra i vicoli di Ercolano e Pompei, così come tra quelle mura antiche sono ancora leggibili degli esilaranti graffiti politici, d’amore, graffiti che pubblicizzavano bordelli o le attività degli artigiani!

Diego Rivera, Josè Clemente Orozco, artisti messicani marxisti, compresero nella prima metà del Novecento che l’arte su grande scala avrebbe avuto un impatto estremo sul popolo e, d’altronde, proprio il popolo messicano nel 1910 iniziò a ribellarsi dipingendo per strada le proprie idee.
Sono gli stessi centro e sud americani che emigreranno negli Stati Uniti negli anni Sessanta e Settanta per sfuggire alle dittature militari. I loro figli inizieranno a sfogarsi sui muri del Bronx. Ecco, dunque, che la ciclicità dell’arte chiude ancora una volta il cerchio. Arte e colore esplodono per necessità di comunicazione e successivamente elaborano l’estetica fino a trovare una o tante etichette di genere.

Maria Francesca Palmerio